Il Parlamento Europeo in seduta plenaria ha approvato l’introduzione di nuovi parametri per valutare la potabilità dell’acqua che proviene dai nostri rubinetti. Dal punto di vista della regolamentazione, si è trattato di un aggiornamento di una direttiva del 1998 sulla base delle ultime raccomandazioni della comunità scientifica.
I nuovi parametri, che l’UE vorrebbe applicare, saranno discussi nelle prossime settimane dal Consiglio europeo, il quale detiene il potere legislativo insieme al Parlamento, ma non dovrebbe essere stravolto più del previsto: la nuova normativa dovrebbe entrare in vigore nel 2019.
L’iter legislativo delle modifiche regolamentari ha interessato diversi parlamentari europei italiani perché i nuovi parametri interesserebbero in modo particolare due regioni italiane: il Veneto e la Sicilia.
Cosa vorrebbe l’UE?
Il nodo principale della proposta approvata dal Parlamento ha riguardato l’aggiornamento dei parametri di potabilità dell’acqua. La proposta della Commissione prevedeva l’introduzione o l’aggiornamento dei valori di riferimento di 18 nuovi parametri chimici e microbiologici, ed è stata in gran parte accolta.
Fra i nuovi parametri chimici c’è ad esempio l’uranio e il bisfenolo A, un composto organico usato per produrre plastiche e resine e sospettato da decenni di essere nocivo per l’uomo, ma su cui la comunità scientifica non ha ancora emesso un giudizio definitivo.
Fra quelli microbiologici ci sono l’Escherichia coli, un batterio molto comune nelle feci umane. Si stima che i nuovi controlli, insieme ad altre iniziative previste dalla direttiva, potrebbero costare in tutto 6-7 miliardi di euro, quasi totalmente a carico degli operatori dell’acqua.
Parte della direttiva prende spunto da un’iniziativa che ha coinvolto oltre un milione di cittadini europei: si chiama Right2Water e comprendeva una petizione che chiedeva alle istituzioni europee di riconoscere formalmente l’accesso all’acqua potabile come diritto umano fondamentale.
Quali sono le conseguenze per l’Italia?
Nel Veneto centrale, nella Valle dell’Agno soprattutto, almeno dal 2013 c’è un problema di eccessiva quantità nell’acqua dei cosiddetti PFAS, un composto chimico sintetico usato soprattutto nel settore del vestiario per rendere tessuti e carta resistenti ai grassi.
Non esistono ancora studi esplicitamente indicativi sulla sua pericolosità, ma dalle prima indicazioni sembrerebbe che i PFAS non vengano smaltiti dal fegato e potrebbero avere ripercussioni sulla tiroide e sul livello del colesterolo. Secondo un recente studio dell’Università di Padova interferirebbero anche con la produzione di testosterone.
Il problema dei PFAS nell’acqua, che arriva ai cittadini veneti, è un tema molto sentito dalla comunità locale, per questo la Regione è già intervenuta approvando nel 2017 parametri molto severi e facendo installare appositi filtri nelle case: questa estate però circa 14mila persone si sono sottoposte a controlli medici, e la stragrande maggioranza di loro aveva una concentrazione anomala di almeno tre sostanze riconducibili ai PFAS.
La Sicilia, al contrario del Veneto, è invece interessata dalla normativa a causa del boro, un elemento chimico di norma innocuo ma la cui esposizione cronica provoca, secondo il ministero della Salute, «irritazione del tratto gastrointestinale, anoressia, nausea e vomito, comparsa di eritema».
È presente naturalmente nel suolo delle aree vulcaniche, come lo è gran parte della Sicilia orientale a causa della presenza dell’Etna, il vulcano più grande in Europa.
Le trattative con l’UE sono iniziate, ma la revisione della normative sull’acqua potabile è già in atto e porterà a notevoli cambiamenti.