Com’è l’acqua che arriva a casa nostra? Di chi è? Chi ce la porta? Come funziona l’approvvigionamento idrico, come è regolato e quanto è efficiente? Siamo talmente abituati ad aprire il rubinetto e a farci una doccia senza particolari restrizioni o problemi che, forse, queste domande non ce le siamo nemmeno mai fatte.
Eppure, sapere le risposte è importante sia come utenti sia, soprattutto, come cittadini. La proprietà delle risorse idriche è sempre pubblica. La sua gestione, al contrario, può essere pubblica, privata o un misto delle due cose.
Dal punto di vista amministrativo, invece, in base a una normativa del 1994 poi rivista nel 2006, l’Italia nel 2017 risultava divisa in 64 ATO (Ambito territoriale ottimale), mentre nel 2011 erano trenta di più.
Per ogni ATO c’è un Ente di Governo dell’Ambito (EGA), che risponde alla Regione, il quale affida il servizio idrico ad un gestore. L’obiettivo della normativa era quello di ottimizzare le gestioni riducendole al minimo, facendo in modo che per ogni Ato ci fosse un’unica gestione dei servizi.
Ciò ancora non è avvenuto: ad oggi gli affidamenti ai gestori unici non sono ancora avvenuti in maniera completa su tutto il territorio nazionale e per tale ragione in alcuni ATO ancora coesistono numerose gestioni.
E di chi sono dunque le gestioni idriche? Ci sono sostanzialmente quattro tipologie di controllo: la gestione diretta (i comuni gestiscono direttamente le risorse idriche e la loro erogazione) che serve il 12% della popolazione italiana; le gestioni pubbliche (cioè realizzate da società a capitale interamente pubblico) che raggiungono il 55% della popolazione; le gestioni miste (cioè realizzate da società a capitale misto, pubblico e privato) che arrivano al 30% dei residenti in Italia, e le gestioni affidate a società integralmente private, che sono decisamente minoritarie e servono il 3% dell’utenza totale.
Le infrastrutture del sistema idrico hanno un gran bisogno di interventi e investimenti, e questi sono a carico del gestore, che sia una società o che sia l’ente locale erogante il servizio. Nel rapporto Bes 2017 sul benessere equo e sostenibile in Italia, ad esempio, l’Istat segnalava che nel 2015 si perdevano 9,4 milioni di metri cubi d’acqua per uso potabile al giorno.
In particolare, si legge che “il volume totale disperso è pari a livello nazionale al 41,4% del volume complessivamente immesso nella rete – si legge nel rapporto – in aumento di 4 punti percentuali rispetto al 2012, a conferma dello stato di precarietà in cui versa l’infrastruttura idrica”.
D’altra parte l’anno scorso, nella sua memoria per l’audizione alla Camera dei Deputati, l’Aeegsi (oggi Arera) osservava che il 36% delle condotte ha un’età compresa fra i 31 e i 50 anni, e che il 22% ne ha oltre 50, definendo “vetusta” la rete acquedottistica italiana.
In questo quadro, va ricordato che noi italiani paghiamo l’acqua a tariffe molto più basse che in altri paesi dell’area UE. Stando ai dati dell’International Water Association, nel 2013 un metro cubo d’acqua a Roma costava 1,62 dollari contro i 4,26 di Parigi; 1,48 a Napoli e 30,7 a Siviglia; e 0,79 dollari a Milano contro i 7 di Amsterdam.
Gli investimenti, ovviamente, sono importanti dal punto di vista dei conti e non tutti gli operatori possono permetterseli. La sproporzione tra le gestioni industriali e quelle operate direttamente dai comuni sono piuttosto evidenti, anche perché i comuni sono comunque vincolati alle regole di bilancio che supervedono alla finanza pubblica.